L'odissea dei concorsi racconta perciò l’impasse del Paese. Quando vengono banditi il 28 aprile scorso, scatta la prima trincea. L'epidemia e il merito sono tirati per la giacchetta, per sostenere l'impraticabilità di un esame in presenza a luglio. È troppo rischioso per la salute, si obietta mentre le spiagge si affollano e le discoteche si riempiono. Non piace neanche il test a crocette, pure previsto in un accordo di sei mesi prima. Perché – si dice – non garantisce una selezione per competenza, mentre i candidati alle facoltà a numero chiuso nello stesso tempo si esercitano sui quiz, senza che nessuno abbia nulla da obiettare.
Risultato: esame rinviato all'autunno. Ma adesso che l'autunno è arrivato, serve qualcuno per gettare la palla in tribuna. Ci pensa Camilla Sgambato, responsabile scuola del partito di Zingaretti: "Fare ora l'esame – dice – significa stressare la scuola, privandola dei docenti chiamati a concorso, e tagliando fuori chi è in quarantena. Rinviamolo a Natale”. Due clamorose bugie. Perché l’esame si svolgerebbe in una sola giornata. Quanto al virus, certamente a Natale non ne saremo fuori. Ma a lei si accoda in poche ore l'intero quadro politico, dalla Lega a Fratelli d'Italia, da Forza Italia alla sinistra di Leu.
Il concorso da picconare è quello destinato ai precari con tre anni di insegnamento. Trentaduemila posti e il doppio dei candidati, una selezione di uno a due che, di questi tempi, dovrebbe essere grasso che cola. Ma le cattedre scoperte nei prossimi anni saranno di più. E la cordata degli intermediatori politici e sindacali non rinuncia a coprirle con infornate di precari in massa. È un metodo consociativo rodato nei decenni. Contrattando con la burocrazia ministeriale una miriade di classi di concorso e le norme di dettaglio sui punteggi per ciascun titolo, le organizzazioni dei lavoratori possono far coincidere i criteri della selezione con quelli dell’appartenenza. E di fatto decidere chi entra e chi no. Perciò la selezione va fermata.
Di più, al concorso dei precari seguirebbe quello ordinario, atteso da migliaia di laureati che ancora sognano di fare gli insegnanti. E che hanno studiato per maturare i 24 crediti qualitativi, richiesti a prova di una vocazione pedagogica e sociale. Sono giovani che hanno investito in questa prospettiva anni della loro vita e denaro, aspettando un bando che non verrà.
Nell'Italia che proclama il merito a parole, e lo tradisce nei fatti, l'ultimo concorso ordinario per medie e superiori si è svolto nel 2016. Lo ha bandito la ministra Stefania Giannini, mandata allo sbaraglio da Renzi con la Buona Scuola, e poi bersagliata dal Pd e sconfessata dal suo leader. Da quel momento in poi i concorsi sono stati richiusi in un cassetto, e la bussola dell'Istruzione è tornata a essere la vecchia e immarcescibile graduatoria a esaurimento. Che mai si esaurirà, per la tranquillità di un sistema consociativo che insegue il consenso solo nel recinto delle sue antiche consorterie, e rinuncia a guardare cosa avviene la fuori, nell'Italia dei ragazzi senza lavoro e senza voce.
Il paradosso di questa vicenda è che stavolta a difendere le ragioni di questi ultimi sia un esponente di quel movimento che pure ha teorizzato la disintermediazione del merito e della competenza. Mentre l'intero quadro politico gioca contro. Con una doppiezza che, nel caso del Pd, rasenta l'inganno sistematico. Così Zingaretti mette in mora Conte sulle riforme per rilanciare il Paese, la viceministra all'Istruzione Anna Ascani tace di un silenzio tombale, e la responsabile scuola spara a palle incatenate contro i concorsi. A questo punto un segreto pudore e la continenza del buon giornalismo impongono di lasciare ai lettori l'ultima parola su ciò che scriviamo.
Alessandro Barbano su Huffingtonpost.it