Manca una politica industriale per sviluppare il Paese

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24/01/2024

L’intervista a Repubblica di Carlo Calenda

Lei e Meloni sembrate uniti nel confondere Repubblica con Stellantis, perché abbiamo gli stessi azionisti di riferimento. Non le sembra che così si attacchi la libertà di stampa?

«Io non ho niente a priori contro Repubblica, non condivido gli attacchi di chi ricopre cariche di governo contro i giornali, ho sempre detto che Landini e Schlein non parlano di Stellantis per tenersi buona Repubblica. Sul rapporto tra il giornale e la vicenda Stellantis ho le mie riserve. C’è stato un effetto Repubblica sulla sinistra italiana dopo l’acquisto degli Elkann, perché Schlein e il sindacato italiano non parlano più di Stellantis. Landini ha ammorbidito i toni in maniera incredibile».

In che senso non parlano più di Stellantis?

«Quando Marchionne comprò Chrysler, Landini lo criticò tantissimo sebbene la produzione fosse del 30% più alta. E non credo che i toni di Landini dipendano da voi, ma da come si pongano il sindacato e la sinistra di fronte al fatto che Elkann è diventato azionista del giornale».

Le sue obiezioni sono nei confronti di Landini?

«Il punto oggi è che non c’è nessuna chiarezza e siamo mantenuti in uno stato di voluta non chiarezza su quello che sarà il futuro in Italia del gruppo Stellantis, non un mercato qualsiasi, perché le assicuro che la Francia non viene trattata così, ma viene considerato come il mercato della casa madre. Se l’approccio di Tavares è dire l’Italia è uno dei milioni di mercati che abbiamo e l’azienda deciderà anno per anno sugli investimenti, faccio notare che non è quello che è stato detto quando è stata fatta l’operazione con Peugeot. Qualcuno deve venire a spiegare quali sono gli investimenti previsti in Italia, su quali modelli, in quale arco temporale e con quale ricaduta occupazionale. Qual è il piano per Italia? Sono diversi dalle assicurazioni rilasciate? E lo devono fare perché ai tempi dell’operazione hanno ricevuto una garanzia pubblica».

Non abbiamo forse anche un problema di competitività del Paese?

«Questa è la seconda parte. Io credo che prima sia doveroso che Tavares venga qui a spiegarci non cosa dobbiamo fare noi, ma quali sono gli investimenti previsti. Poi la seconda parte, se volete di più dovete darci più agevolazioni e sconti, è normale, ma viene dopo».

Ma voi cosa avete fatto per migliorare lo scenario italiano?

«Abbiamo proposto una mozione per usare i fondi del Pnrr per rivitalizzare Industria 4.0 allargata a ambiente ed energia, abbiamo detto che i proventi delle aste degli Ets, il mercato sulle emissioni di CO2, devono essere restituite alle aziende per abbattere i costi dell’energia. Inoltre serve capire che fine abbia fatto il fondo per l’Automotive da 8,7 miliardi di euro, istituito sotto il governo Draghi, perché servirebbe per sostenere tutta la filiera. Oggi il governo Meloni non fa nulla e non ha una politica industriale per lo sviluppo».

Avete commesso errori sul caso Ilva, se ne occupò anche lei da ministro?

«L’Ilva è il paradigma dell’Italia. Tu fai una gara che viene vinta con un contratto blindato che prevedeva 4,2 miliardi tra investimenti e prezzo, cinque anni di sorveglianza, l’impossibilità di licenziare un operaio, con tutti i livelli retributivi riconosciuti, ma poi con l’avvento del governo Conte-Di Maio è stato fatto saltare tutto per la decisione di revocare lo scudo penale. Per di più è stata fatta una società con lo Stato con una partecipazione di minoranza, dove Arcelor Mittal ha fatto quello che voleva».

Perché in sede di gara vinta da Arcelor non avete permesso il rilancio alla cordata di Jindal guidata dalla Cassa Depositi e Prestiti? Anche alla luce del fatto che ora si chiede allo Stato di intervenire.

«I rilanci non erano previsti. Avrei dovuto far rifare la gara. Inoltre i parametri non erano limitati al prezzo, ma includevano anche il piano industriale, il piano ambientale e il piano finanziario e avrei dovuto riaprire su tutto. Non seguire le regole mi avrebbe esposto al rischio di una causa da parte di Arcelor da 600 milioni, la differenza tra le due offerte, sempre a patto che la Commissione europea me lo avesse permesso. Riaprire la gara voleva dire aspettare un altro anno con un costo per lo Stato di 800 milioni di euro».

Come finirà?

«Male, perché nel settore dell’acciaio, dopo le forti sovvenzioni elargite negli anni ’80 per ristrutturare l’eccesso di capacità produttiva della filiera, oggi qualsiasi contributo che arrivi dallo Stato deve essere restituito. La Commissione europea è molto rigida su questo. Per cui finirà male, perché è molto difficile gestire un’Ilva pubblica. Finirà che serviranno dieci miliardi per bonificare quel territorio».

E Alitalia, non ha detto forse che l’avrebbe lasciata fallire?

«Che vuole, la stiamo dando a Lufthansa dopo averci buttato altri quattro miliardi, quando già noi la volevamo vendere ai tedeschi. I piloti rifiutarono di tagliarsi lo stipendio, votarono contro nel referendum, nonostante il parere favorevole di tutti quanti i segretari dei sindacati. A seguito di quell’episodio, l’avrei lasciata fallire, come hanno fatto con Swiss Air, che, dopo un prestito ponte, fu venduta a Lufthansa».

Lei si occupò anche del caso Embraco, controllata di Whirpool. Ha qualche rimpianto?

«Mandarono le lettere di licenziamento dalla mattina alla sera. Noi intervenimmo per bloccarli e ci proposero degli investitori alternativi. Siccome per noi erano altamente inaffidabili, facemmo approvare dal consiglio dei ministri un fondo contro le delocalizzazioni da 300 milioni di euro. Fu l’ultimo provvedimento del governo Gentiloni, ma, caduto il governo, non se ne occupò più nessuno. Conte e Di Maio spostarono quei soldi su un fondo di venture capital. E non se ne fece più nulla».

(Intervista a cura di W. Galbiati)