Recovery, un’opportunità imperdibile per ricerca e università
Servono 12 miliardi l'anno e una riforma rapida per raggiungere la media europea
Secondo un recente sondaggio di Swg, il 61% degli italiani destinerebbe le risorse del Recovery fund a ricerca e istruzione. Al primo posto la sanità, indicata dal 75% degli intervistati. Questa empatia nei confronti di ricerca e istruzione, persino maggiore di quella riservata alla riduzione delle tasse citata dal 50%, è una novità che contiene un seme da annaffiare con cura. Per quanto tardiva, e quali che siano le ragioni che la motivano, deve essere trasformata in un’adesione collettiva — politica e sociale — a un principio: nulla come la conoscenza e la possibilità di ampliarne i confini rende un Paese prosperoso.
Ma tra la scontata condivisione che il futuro dipende dalla formazione delle nuove generazioni e la possibilità che ciò si concretizzi sta la volontà di identificare le priorità e di investire sulla loro attuazione. Le politiche europee ci consegnano la disponibilità di investimenti sufficienti per recuperare il terreno perduto e raggiungere gli obiettivi che il nostro stesso Paese si è dato nell’ambito della programmazione comunitaria, ricerca e istruzione devono essere una priorità.
Il nostro sistema delle università accoglie circa 1.800.000 studenti, 31 ogni 1000 abitanti contro i 39 della media europea a cui sono allineate Francia e Germania. La stessa distanza rispetto a benchmark europei è evidente per altri parametri. Siamo ultimi tra i Paesi Ocse con il 28% di 25-34enni con diploma di formazione terziaria (laurea, tecnico superiore, alta formazione artistica) rispetto al 44% della media europea. Abbiamo 20,4 studenti per docente, un rapporto ampiamente superiore a quello di Francia (16,2), Germania (12,2) e media europea (15,4). Investiamo per l’educazione terziaria lo 0,75% del Pil contro l’1,23% e l’1,25% di Francia e Germania, e la spesa annua per studente è circa 9000 euro rispetto a 13000 della media europea.
Allo stesso tempo, e non stupisce perché le università per competere devono finanziarsi, i nostri studenti pagano un contributo medio annuo di 1345 euro rispetto a 350 in Francia e 50 euro in Germania. Da questi contributi le nostre università pubbliche raccolgono ogni anno oltre 1,5 miliardi di euro, indispensabili ma drenati alle famiglie, molte delle quali si troveranno in sempre maggiore difficoltà nel prossimo futuro. I dati sul finanziamento alla ricerca non sono diversi. Con l’1,39% di investimento sul Pil rispetto al 2,2% e 3,13% di Francia e Germania, l’Italia è ben lontana nel settore industriale (0,86% contro 1,44% e 2,16%) e pubblico (0,5% contro 0,73% e 0,98%).
I naturali effetti sono l’esiguo 0,58% di ricercatori sulla popolazione attiva, rispetto all’1% di Francia e Germania e 0,83% della media europea, e 33% di impiegati ad alto valore di conoscenza sul totale della forza lavoro contro il 40% in Francia, 37,3% in Germania e 36,3% in Europa. Peggio ancora se guardiamo alle richieste di brevetto ogni 1000 abitanti: 0,06 in Italia, 0,11 in Francia, 0,22 in Germania.
La relazione di febbraio 2020 della Commissione europea sull’Italia fotografa il divario drammatico causato da queste criticità e sottolinea la necessità e urgenza di investimenti. Potremo continuare a elogiare le potenzialità del nostro capitale umano laureato, che peraltro continua a emigrare, ma senza un intervento deciso quelle potenzialità non troveranno un’università accessibile, inclusiva e internazionale in cui esprimersi per sostenere un sistema di ricerca competitiva e ad alto impatto.
Nel solco degli indirizzi del piano Amaldi, le azioni che proponiamo hanno l’obiettivo di innalzare gli indicatori sistemici ai livelli della media europea e semplificare i processi liberando ricerca e formazione terziaria da vincoli di procedure inadeguate e anacronistiche.
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Accrescere la popolazione studentesca a 2,25 milioni favorendo l’ingresso di 450 mila nuovi studenti. Bisogna insistere sull’istruzione professionalizzante dove scontiamo l’arretratezza maggiore. Un dato su tutti: oggi gli iscritti agli Istituti tecnici superiori sono circa 18000 mentre in Germania sono impegnati annualmente circa 900 mila studenti;
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Potenziare i dottorati, anello fondamentale della catena che collega ricerca a trasferimento tecnologico. Bisogna definire i settori prioritari e introdurre regole di gestione internazionali per invertire la decrescita agli attuali meno di 9000 dottorandi italiani rispetto ai 15000 di Francia e 28000 di Germania;
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Ampliare di 25 mila unità l’organico universitario e incrementare l’attuale irrisoria quota di docenti e ricercatori internazionali.
Queste azioni richiedono l’allineamento della spesa per ricerca e sviluppo alla media europea, alla quale devono contribuire anche misure di iperammortamento e defiscalizzazione per le imprese che investono in ricerca e innovazione scientifica. In termini finanziari, gli interventi si traducono in un incremento di spesa dallo 0,75% all’1,2% per la formazione universitaria e dallo 0,5% allo 0,7% per la ricerca. In termini assoluti, ciò equivale a un finanziamento aggiuntivo di circa 12 miliardi di euro annui, di cui 4 miliardi per raggiungere il livello medio europeo di spesa per la ricerca e 8 miliardi per l’istruzione superiore.
Un intervento delle proporzioni ipotizzate implica un’azione di riforma rapida che renda il nostro sistema efficace e competitivo sullo scenario internazionale. Semplificare il sistema della ricerca e formazione universitaria deve essere l’obiettivo condiviso. È necessario:
- Liberare Università e Enti di ricerca dai vincoli della Pubblica amministrazione su acquisti, appalti, missioni e quant’altro rappresenta oggi un freno intollerabile all’operatività negli aspetti fondanti del lavoro di ricerca;
- Incentivare le partnership pubblico-private per aumentare competitività e attrattività internazionale;
- Differenziare le carriere introducendo posizioni orientate a insegnamento e ricerca, adeguare le fasce di retribuzione alla media europea introducendo flessibilità legata al rendimento, e aprire alla cooptazione quale meccanismo di reclutamento seguendo le prassi internazionali.
Per quanto impegnativo, non è impossibile. Sul piano degli interventi legislativi di semplificazione e revisione organizzativa, le nostre proposte sono oggetto da tempo di una riflessione sulla quale il livello di convergenza appare maturo. Sul piano finanziario, basta osservare che l’investimento richiesto è della stessa entità di quello previsto a bilancio per la copertura del reddito di cittadinanza e quota 100, due misure che hanno aumentato la spesa corrente senza creare alcuna delle prospettive di crescita economica e sociale che un investimento in ricerca, formazione superiore e innovazione determina.
Quella che ci viene consegnata con i nuovi stanziamenti del fondo Next Generation Europe, di cui l’Italia è il primo beneficiario, è un’opportunità che non possiamo perdere. All’inverso, l’attuale declinazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza per il settore di istruzione, formazione, ricerca e cultura è generica, disarticolata nell’individuazione di obiettivi, metodi, tempi e piani di sostenibilità, e priva del coraggio necessario a rendere concrete le esigenze che abbiamo sottolineato.
Non è questo quello che ci serve e non è più tempo di misure confuse e scelte estemporanee. Bisogna investire nelle risorse straordinarie, ponendo ricerca e formazione al centro di un’agenda di sviluppo non più rinviabile. Lo chiedono oltre 6 cittadini su 10. Agire diversamente sarebbe imperdonabile.
Editoriale pubblicato sull'edizione odierna del Corriere della Sera, firmato da:
Michele Bugliesi, responsabile Università e Ricerca, già rettore Università Ca’ Foscari di Venezia
Mirko Degli Esposti, responsabile Università e Ricerca, Prorettore vicario Università di Bologna
Giuseppe Lauria Pinter, Ordinario di Neurologia Università di Milano e direttore Dipartimento neuroscienze cliniche Istituto Carlo Besta